mercoledì 25 gennaio 2012

Il vicoletto delle Vergini

Magrissima. Sottile appariva sotto quel vestito bianco, nuziale.
Pallidissima ed emozionante, rosea sulle gote. Verdi i suoi occhi languivano quando volgeva lo sguardo indietro quasi nascondendosi dietro la spalla.
Migrava col pensiero a stormi verso la nuova casa, e il nuovo marito che avrebbe raccolto il suo fazzoletto bianco, lasciato cadere, ceduto in sposa. Era un’ Esposta. Figlia della Madre e di Dio. Figlia della Terra e del Destino. Figlia di nessuno.
Stava per lasciare il convento, quello da cui 17 anni prima fu accolta, e sorridente, le fu messo nome Giulia.
Suor Virginia era in limine, con le mani giunte in orazione, lacrimante. La guardava riporre le sue cose nel baule sotto il letto, piegava il maglione di lana e la sua gonnella lunga fin dopo i ginocchi, e poi la divisa da orfana.
Quando Giulia si accorse che colei che l’aveva più accudita di tutte la osservava, si fermò un attimo. Si guardarono da lontano intensissimamente, come si guarda una madre quando si va via, come si guarda una figlia che lascia la casa. Così, a distanza, quasi per mantenere quel rispetto che c’era stato, quell’affezione primordiale silenziosa, aulica spoglia di gesti, parole ed effusioni; carica di tensione, cordialmente vestita di virtù divina.
Suor Virginia sospirò. Guardò al cielo come per fermare le lacrime.
<< Vai via oggi, figlia mia? >>
La ragazza, raggirò il letto e le andò vicino. Le carezzò il volto, le prese le mani nelle sue e, come segno di ringraziamento e abbandono, l’abbracciò.
Attraversava le camere e il convento tutto: il chiostro in cui rincorreva il pensiero di sé bambina, solitaria e taciturna, meravigliata di ogni cosa e del verde muschio che s’aggrappava alla rocce e al pozzo; il dormitorio; la cucina di donna Giovanna in cui si sentiva ancora l’odore delle lenticchie e lo scoppiettar della legna in forno, dove cuoceva il pane quotidiano. Salutò tutti e tutto, s’avviò al cortile dell’Annunziata ancora barocco, lasciandosi dietro le arcate e le sculture dell’annuncio a Maria Vergine.
In via Nuova, fuori del convento, l’aspettava lo sposo e la sua nuova vita.
Per la campagna, dove sorgeva un casolare spezzato dai raggi del sole vespertino, arancione, e dalle nuvole sparse che predicavano pioggia, si immischiavano i suoi ricordi di un passato nell’aspettative del futuro.
Ernesto Guerra, quel 15 di Aprile 1942, raccolse il fazzoletto di Giulia, prima che esso si dispiegasse al suolo. Era un uomo apparentemente dolce, dalla personalità deviata, controversa, corrotta, contorta e che contorceva lo stomaco altrui. Elegante, col ciuffo che maniacalmente si pettinava e gettava all’indietro. Gli occhi sbarrati e le intrigate trame dei suoi capillari scleracei mostravano il suo carattere instabile, mutevole, multiforme e informe, nascondevano il nascere inspiegabile di un mostro spietato e pazzo! Era di una bellezza svuotatrire, ingannevole, misteriosa. Giulia lo adora religiosamente, tanto da annullarsi: un annullamento che la rendeva vulnerabile, quasi vuota, tersa. Amava uno squilibrato, uno sconosciuto, soltanto per la sua bellezza.
Era raro che le figlie della famiglia delle Esposte riuscissero a coniugarsi con una simile bellezza, gli aspiranti non erano certo di buona famiglia, ma erano uomini soli, maledetti, ubriaconi, zoppi, gobbi, distorti, spostati, forestieri, ladri, malviventi.
<< Preparami qualcosa di buono per cena! >> le disse Ernesto.
Operosa lei svolgeva il suo compito di moglie, e subordinata. Per i primi tempi si mostrava rispettosa e lavoratrice, osservava i comandamenti dettatele dal marito. Lo studiava, era dapprima affascinata dal suo aspetto, poi quotidianamente cercava di insediarsi e scorgere nelle pieghe del suo io, tortuosissime, inspiegabili.
Particolare fu l’episodio di una sera invernale.
Era una notte fosca, ansiosa, la nebbia sparsa circondava come nuvole basse il casolare; la luna ululante si spezzava tra i rami degli alberi nudi. Giulia era a letto, tra le lenzuola spiegazzate su cui posavano le ombre trasversali. Udì in lontananza un’automobile che rigava la terra della campagna, e dei cani rabbiosi corrergli dietro e abbaiare. I fari spezzavano l’inquieta quiete. Ella s’alzò per affacciarsi alla finestra: era Ernesto. Non diceva mai dove andava, ritiravasi stonato e maledetto, cogli occhi solcati e pungenti. Quell’uomo, se pur bello d’aspetto, affogava molti segreti, spaventosi, tesseva trame intriganti, aggrovigliate come ragnatele, che metteva insieme fatti, cose, persone come statue mute che esplodono, lasciando cocci sparsi, difformandosi morendo.
Ernesto Guerra era il nome di un assassino, era il nome di suo marito, di un uomo che, prima di diventare uomo, fu maltrattato da sua madre. Fu rinchiuso per sette anni in uno scantinato, perché in quella famiglia di dodici figli era di troppo. Il padre soltanto non volle abbandonarlo, né ammazzarlo, né rinchiuderlo in un orfanotrofio. Era un Guerra, e un giorno, qualora fosse sopravvissuto, avrebbe portato avanti il suo nome. Gli fu privato ogni affetto dalla madre che lo guardava sempre con ribrezzo e disgusto, altezzosamente avvolta nel suo grosso scialle nero, e il mento rivolto in su, indifferente. Ricordava quegli anni come traumatici, quello scantinato umido e gocciolante divenne il suo mondo e la fabbrica in cui lavorò alla sua violenta meccanica. Fu poi adottato da una zia paterna, la quale non riusciva a avere figli, dopo il venticinquesimo anno di matrimonio. Crebbe, e gli fu affidata la casa in campagna. I suoi assassinii erano regolati dall’odio: far fuori quanti gli ricordavano quegli anni e quei familiari assassini. Uccideva il simile, credeva di uccidere il ricordo, credeva uccidendo di privarsene materialmente.
Quella sera tornò mostruoso, affannato. Si poggiò sul camino che gli arrossì il volto su cui s’affacciava il ciuffo straordinariamente sudato e scomposto, fissava il fuoco, ansante e dannato.
Giulia, che a piedi scalzi sotto la veste da camera, s’era messa ad osservarlo inquietata, realizzò che uomo fosse, suo marito. Si lasciò cadere a terra, strusciandosi con la schiena al muro, spaventatissima alla vista di una revolver che grattava la tempia di Ernesto.
Tornò stordita a letto, sembrava privarsi dei sensi ad ogni passo, molle, leggero, silente. Decise di non parlarne mai, accettando la sua condizione di moglie e di serva. Il suo silenzio di rassegnazione, pareva un atto di complicità che mai si risolse.
Le cose da quella sera molto cambiarono. 

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